giovedì 19 maggio 2011

Formigoni decripta il messaggio mandato al centrodestra dagli elettori.



Guardando dall’alto del suo ufficio nella nuova sede regionale, che cosa vede il presidente Formigoni? Milano è sempre Milano? Vi sentite un po’ traditi? «Traditi no, non direi. Certamente, però, ci ha mandato un segnale forte». Martedì 17 maggio, è passata solo una notte da quello che il governatore lombardo definisce un «voto di midterm», instaurando un parallelo tra la sconfitta del Pdl in città e i risultati «che George Bush, cinque anni fa, e Barack Obama, solo sei mesi fa, ottennero nelle elezioni statunitensi di medio termine». Il paragone rientra, ovviamente, nella casistica dei “parallelismi impossibili”, ma a Roberto Formigoni serve da spunto per cogliere quello che lui definisce il “messaggio politico” che l’elettorato ha voluto recapitare ai dirigenti del centrodestra: «Come gli elettorati repubblicano e democratico in quelle occasioni, anche il nostro ha voluto esprimere un malessere e un disagio. Lo ha fatto in maniera forte e decisa, ma senza tradirci. L’ha fatto, infatti, nell’unica occasione in cui esso è rimediabile. Così il voto si è disperso, è andato in libera uscita. Ora sta a noi riportarlo a casa, innanzitutto, dicendo a questi cittadini che “abbiamo capito, rimedieremo”». Il tempo si fa breve. Basteranno quindici giorni? I ballottaggi sono il 29 e 30 maggio: «È una sfida, possiamo farcela. A patto che l’analisi degli errori sia schietta e si cambi strategia».



Il voto milanese è quello che ha destato maggiori sorprese; è quello simbolicamente e strategicamente più importante anche in ottica nazionale. I numeri dicono che Giuliano Pisapia andrà al secondo turno col 48 per cento dei consensi, il sindaco uscente Letizia Moratti col 41.
Per leggere nella loro interezza questi numeri dobbiamo paragonarli con quelli delle ultime comunali. Pisapia ha ottenuto solo un punto percentuale in più di Bruno Ferrante, il candidato del centrosinistra nel 2006. Moratti ne ha persi dieci. Di questi, cinque li metto in carico a un logoramento, direi fisiologico, che si paga quando si governa e alla fuoriuscita di Udc e Fli, che erano con noi nella precedente elezione.



Quindi la domanda da farsi è: che fine hanno fatto gli altri cinque?


Appunto. Dove sono andati? Li abbiamo persi, ma, io credo, non per sempre. Questo è stato un voto con cui gli elettori hanno voluto punire il centrodestra. Tutto il centrodestra, sia il Pdl sia la Lega. Concentrare le analisi solo su una causa o le colpe solo su una persona è sbagliato. È stratagemma di comodo per nascondere le proprie responsabilità che, ripeto, sono di tutti. Sul risultato hanno giocato una serie di concause e non credo, come già vedo fare, che la croce vada gettata addosso solo a Moratti e Berlusconi. Ha influito la situazione locale della città, il lavoro del governo, la guerra in Libia e, fatto che non sottovaluterei, l’alleggerimento del portafoglio in questi anni di crisi economica.



Le concause che ha elencato erano note prima del voto; che si rischiasse il ballottaggio era prevedibile. Si aspettava, però, che Pisapia partisse in vantaggio?


Diciamo che mi auguravo, fatto salvo il calo fisiologico di cui ho detto, di riconfermare il dato del 2006.



Anche senza i voti in fuoriuscita verso il Terzo Polo?


Non c’è stato travaso di consensi, né verso sinistra né verso il Terzo Polo. Rispetto a questi ultimi, e il risultato del partito di Fini me ne dà conferma, è da tempo che metto in guardia dai sondaggi generosi su Fli. L’italiano può anche avere simpatia per Fini o Casini, ma sa che a vincere non saranno loro. L’Italia è bipolare, il voto è bipolare. Il nostro elettore non ha cambiato casacca. Non ha scelto altro, ha rifiutato noi.



Non pare essersi nemmeno spostato verso la Lega. Un analista attento come Roberto D’Alimonte ha scritto sul Sole 24 Ore che, «contrariamente alle aspettative i delusi di Berlusconi non hanno votato Bossi». Più di un osservatore aveva infatti previsto che, viste le difficoltà del Pdl, molti consensi si sarebbero trasferiti verso il Carroccio. A questo proposito, in molti avevano interpretato come fuoco amico certe uscite pubbliche di esponenti leghisti. E non è mancata nemmeno l’accusa alla Lega di essere stata troppo tiepida nel sostenere la Moratti.


Non è corretto imputare alla Lega il risultato di Milano. Da quando ha deciso di sostenere il candidato sindaco, lo ha fatto lealmente. Certo, qualcosa va chiarito, come quella frase pronunciata dal leghista Davide Boni, il presidente del Consiglio regionale lombardo, secondo cui «è innegabile che qualcuno dei nostri a Milano abbia dato un voto disgiunto». Sono certo che Boni saprà spiegare, anche perché – come dicono i numeri – né Pdl né Lega possono cantare vittoria. Anche loro, rispetto alle ultime regionali, sono calati di 5 punti.



Ora avete quindici giorni per rimediare. Cosa propone Formigoni per vincere il ballottaggio di Milano?


Primo: dire ai nostri elettori: “Abbiamo imparato la lezione. Abbiamo compreso il messaggio di malessere che ci avete inviato”. Secondo: cambiare strategia comunicativa, smetterla con i toni urlati. Milano è una città moderata e pragmatica, insofferente alle chiacchiere e agli attacchi personali rivolti agli avversari. Qui ci si aspetta che la politica offra soluzioni concrete sul federalismo, sulle riforme, sull’Expo. Su questo appuntamento del 2015 abbiamo sbagliato molto dal punto di vista della comunicazione. Dovevamo chiarire subito che i primi risultati si sarebbero visti fra qualche anno, ora è il tempo delle scartoffie e delle carte bollate. Invece ci siamo fatti prendere dalla frenesia, creando un’aspettativa che, inevitabilmente, ha comportato una delusione. Uscendo dal caso particolare e ritornando al generale, ciò che ora dobbiamo riuscire a far passare è che è importante che Milano torni a essere guidata da una visione riformista, ottimista e moderata che qui in Lombardia è stata sempre incarnata da Berlusconi e dai berlusconiani.



Sinceramente, il presidente del Consiglio non pare proprio aver condotto una campagna elettorale nel segno della moderazione. Anzi.


Ma lui è scusabile! Voglio dire: a chi non “girerebbero le balle”? È perennemente inseguito dai suoi processi, il “giro di balle” è legittimo. Quel che non è più scusabile è, invece, riproporre in queste due settimane una campagna elettorale gridata, a tratti arrogante, come è stata finora condotta da certi “berluschini”. E non mi faccia fare nomi, ci sarà tempo fra quindici giorni per analizzare le responsabilità specifiche.



Questo voto mette a repentaglio la stabilità del governo?


No. Se, prescindendo da Milano, guardiamo i dati a livello nazionale non vediamo un arretramento. Abbiamo guadagnato qualche sindaco, abbiamo mantenuto il nostro consenso. Certo, il voto mette in rilievo un certo disagio anche verso il governo, ma Berlusconi ha una maggioranza. Occorre che quest’ultima lavori con maggior lena e che compia gesti concreti. Serve dare segnali, dopo un periodo di instabilità economica e di tagli. Guardiamo anche agli altri paesi: Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sono usciti molto più malconci di Berlusconi dalle ultime elezioni. Con la crisi internazionale che c’è, in fondo, il premier è stato capace di difendersi molto meglio dei suoi pari grado europei. Teniamo anche conto della guerra in Libia, un conflitto che abbiamo subito e in cui siamo stati costretti a impegnarci. Non giriamoci troppo intorno: l’80 per cento degli italiani è contrario alla guerra. Inevitabile pagarla nelle urne.



Fa bene il segretario del Pd Pierluigi Bersani a cantare vittoria?


Contento lui… A Torino Piero Fassino ha preso dieci punti in meno di Sergio Chiamparino, a Bologna ce l’hanno fatta per un soffio, a Milano il candidato è di Rifondazione. Per non parlare di Napoli, dove Luigi De Magistris li ha fagocitati. In generale, fossi in lui, sarei molto preoccupato: la morsa Vendola-Di Pietro si sta stringendo.



Mentre si allarga il consenso del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo.


È un segnale dell’insofferenza dell’elettorato di sinistra. Negli anni passati questo spaesamento è andato a vantaggio, a turno, dei Radicali, dei vendoliani, dei dipietristi. Oggi tocca a loro. È un fenomeno che colpisce la sinistra, ma in quell’amalgama indistinto c’è anche una componente di destra. Bisognerebbe vederli in un’esperienza di governo. Troppo facile limitarsi a fischiare dalla platea.



(intervista tratta del settimanale Tempi)

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